“Io sono uno che sceglie la solitudine. E che come artista si fa carico di interpretare il disagio rendendolo qualcosa di utile e di bello. È il mio mestiere.”
Cominciamo da qui, da uno degli aforismi di De Andrè per raccontare la vita e la carriera di uno degli artisti più amati dagli italiani di ogni generazione. Fabrizio De André è morto alle 2 e 30 dell’11 gennaio 1999, dopo aver reso immortale la sua impronta nella musica e nella cultura italiana contemporanea.
Fabrizio De André: biografia
Il 18 febbraio del 1940 a Genova, nasce Fabrizio De André, figlio di Luisa Amerio e Giuseppe De André, professore antifascista che qualche anno dopo si trasferisce con tutta la famiglia ad Asti. Qui il piccolo “Bicio” cresce, e cresce la sua passione per la musica. Tante delle frasi di De André e delle frasi canzoni di De André trarranno ispirazione da questa infanzia contadina, fatta di condivisione e semplicità.
Nel 1945 si ritorna a Genova, e a scuola con le suore comincia a venire fuori il temperamento ribelle e anticonformista di Fabrizio. Nel 1948 la musica entra in pianta stabile nella sua vita con le lezioni di violino. Poi seguirà lo studio della chitarra, strumento con cui Faber costruirà una lunga storia d’amore. La prima esibizione in pubblico arriva negli anni ’50, ad uno spettacolo di beneficenza organizzato al Teatro Carlo Felice dall’Auxilium di Genova. Affamato di conoscenza musicale, De André non si accontenta di quello che c’è in giro e spazia continuamente, dal country e western, alla musica jazz, dalla canzone francese a quella trobadorica medievale.
La discografia di De André comincia con la prima pubblicazione del 1958, il singolo “Nuvole barocche”, ma il successo arriva diversi anni dopo con “La Canzone di Marinella”, incisa da Mina. Il giovane cantautore gira da un palco all’altro esibendosi in brani diventati storici. Cosa caratterizza lo stile di Fabrizio De André? Testi che si scagliano contro l’ipocrisia bigotta e le convenzioni borghesi imperanti. Forse è per questo che i suoi primi album, come “La buona novella” del 1970, una rilettura dei vangeli apocrifi, e “Non al denaro né all’amore nè al cielo”, l’adattamento dell’Antologia di Spoon River, non vengono inizialmente considerati dalla critica.
Nel bel mezzo degli Anni ’70, gli anni di piombo di un’Italia persa e allo sbando, De Andrè viene rapito dall’anonima sarda insieme alla compagna Dori Ghezzi. Quattro mesi di sequestro da cui nascerà un altro pezzo della discografia di Fabrizio De André, l’album “Indiano”. La consacrazione internazionale arriva nel 1984, con il disco “Creuza de ma”: in questo caso il testo delle canzoni di De André è in dialetto ligure, la musica ha una forte impronta mediterranea e vengono narrate le storie e le vite di personaggi del mondo portuale, dei vicoli e delle strade di Genova. La critica premia la ricerca musicale e le frasi di Fabrizio De André, incoronando l’album come il migliore dell’anno e del decennio.
Del 1990 è un altro successo, Le Nuvole di De André, album accompagnato da un tour trionfale. Dopo un silenzio durato ben quattro anni, De André torna nel 1996 con Anime Salve, disco amatissimo da pubblico e critica. Sarà l’ultima perla, l’eredità musicale, un compendio di note e citazioni di De André, racconto in musica di una vita passata a cantare per chi non ha voce, per gli emarginati, per gli ultimi della società. La morte di Fabrizio De André è un colpo per tutti, pubblico e addetti ai lavori: a salutarlo al suo funerale ci sono oltre diecimila persone.
Un talento a lungo incompreso, quello di Faber. E per dare una vetrina ai talenti incompresi, nel 2002 la Fondazione De André comincia a premiare i nuovi artisti. Il Premio De André riconosce ogni anno l’impegno e l’originalità degli artisti che sperimentano nuove forme per la musica d’autore.
Fabrizio De andré: canzoni più belle
Le canzoni di Fabrizio De André ci raccontano chi è stato Faber: la sua vita, i suoi amori, la sua carriera, la sua personalità. E ci mostrano il volto di tante Italie, dalle molteplici sfaccettature, dalle infinite possibilità. Un viaggio nelle frasi di Fabrizio De André, nei suoi brani più significativi, in quel mondo immortale fatto di voce e chitarra, passione e poesia.
La ballata del Miché (1961)
De André, canzoni più belle? Cominciamo da questa, composta all’età di 20 anni. Si intravedono qui già molti dei temi che caratterizzano la poetica di uno dei maggiori cantanti italiani: la solidarietà verso gli ultimi, l’opposizione all’intransigenza della legge, il dualismo amore/morte. L’arrangiamento è ispirato alle sonorità francesi e accompagna la narrazione della vita di Miché, un uomo che si toglie la vita perché non riesce a vivere in carcere lontano dalla donna che amava e per la quale aveva ucciso. Il suicidio diventa in questo caso un gesto di coraggio, un’azione tesa ad eternizzare quell’amore. Non mancano i riferimenti alla mancata pietà cristiana della Chiesa: nessun rispetto per il corpo di Miché, gettato in una fossa comune.
Amore che vieni, amore che vai (1966)
La canzone di De André pubblicata nel 1966 come lato B del singolo Geordie è diventato uno dei brani più suonati di sempre. Non il semplice racconto di una storia d’amore, ma di tutte le storie, le storie d’amore di tutti gli uomini, di ieri, di oggi e di domani. Un sentimento che muta, mai uguale a se stesso, che passa come passano le stagioni. Un capolavoro universale, compreso e amato dagli uomini di ogni età, di ogni epoca, di ogni tempo.
Preghiera in gennaio (1967)
Tutte le canzoni di De André si possono definire poesie, ma questa lo è un po’ di più. Un brano dedicato all’amico Luigi Tenco, morto suicida a Sanremo, dopo essere stato rifiutato dalla kermesse canora italiano. Il cantautore verrà trovato morto nella sua stanza d’albergo nel 1967 e Faber resta impietrito di fronte al suo corpo in obitorio. Comporrà poi questa preghiera laica, che parla di misericordia, di perdono, di riconciliazione spirituale. De André chiede che il suo amico trovi un posto in Paradiso, nonostante il pensiero dei “signori benpensanti”, perché preferì la morte all’odio e all’ignoranza.
Il testamento di Tito (1970)
Singolo estratto da “La buona novella”, un album rivoluzionario. Sono gli anni della contestazione e Faber reinterpreta allegoricamente, come è solito fare, i Vangeli Apocrifi, che mostrano la versione più umana di Gesù. In questa canzone, la musica sale di intensità, da un inizio lieve fatto di sola chitarra all’ingresso graduale di tutti gli altri strumenti. Nel testo c’è tutto Fabrizio De André, tutto il suo pensiero, condensato in strofe destinate a fare la storia della musica italiana. Tito, uno dei due ladroni crocifissi insieme a Gesù, esprime il suo punto di vista sui Dieci Comandamenti. La lista di quei sacri imperativi viene analizzata pezzo per pezzo, e scagliata come un’arma contro l’ipocrisia degli uomini che si nascondono dietro i comandamenti per vivere da veri peccatori.
La collina (1971)
Il terzo album di De André è ispirato dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Il cimitero più celebre della letteratura viene musicato, così come i suoi personaggi. Dove sono i corpi degli uomini uccisi? Dov’è la donna che ha detto addio alla vita in un bordello? Eccoli, tutti dormono sulla collina, ad imperitura memoria di una morte che livella le condizioni sociali e pone fine alle sofferenze terrene.
La canzone del padre (1973)
De André ha sempre parlato di politica, non ha mai fatto mancare il suo punto di vista sulle vicende italiane e mondiali del suo tempo. Come? Parlando attraverso le sue canzoni. In questa canzone la voce narrante è quella di un impiegato, che vuole sovvertire la società che lo circonda. Ma come i protagonisti delle novelle pirandelliane si ritrova ingabbiato nella vita borghese, nel vortice del potere che logora chi ce l’ha e chi non ce l’ha in egual modo.
La cattiva strada (1974)
Sonorità americane pervadono questa ballata scritta con Francesco De Gregori in Sardegna. Più di una canzone, un viaggio, un percorso, quello di un uomo verso il rifiuto di ciò che è giusto solo perché viene imposto dall’alto. Tre accordi che ruotano per tutto il brano, a corollario di un testo che celebra l’andare controcorrente, il mettere in discussione lo status quo, l’avere il coraggio di deviare dal tracciato stabilito.
Creuza de mä (1984)
Un album su cui non si dirà mai abbastanza, nato dalla collaborazione artistica tra De André e Mauro Pagani e pubblicato nel 1984. Il brano che dà il titolo al disco è una storia di marinai che tornano a casa dopo la pesca. Come Ulisse sono condannati ad un viaggio senza fine, in balia del mare e del suo umore. Nel brano si evocano odori e profumi della cucina ligure, descritti nella musicale lingua di questa terra italiana di frontiera.
La domenica delle salme (1990)
Il malessere di Fabrizio De André nasce dalla consapevolezza dell’asservimento della cultura in Italia. Lo spiega bene questa canzone, un’amara critica della società del tempo. Dopo la caduta del muro di Berlino, simbolo del comunismo, il sogno di tante persone è andato in frantumi. La società borghese occidentale vuole tutti uguali, perfetti. Non c’è spazio per la ribellione in un mondo destinato al perenne fascismo? Forse, ma Faber ci prova fino all’ultimo, cantando di libertà ed anarchia.
Ho visto Nina volare (1996)
Ci sono tanti suoni diversi in questo brano: il battere di un tamburo lontano che cresce d’intensità avvicinandosi, la dolce melodia della chitarra acustica e del flauto. Ci sono le antiche tradizioni contadine e un amore impossibile, quello di un giovane solitario che spia una fanciulla in altalena. Quel giovane era Faber, che da bambino passava i pomeriggi nella casa di campagna dei genitori, in compagnia di Nina Manfieri. Fabrizio racconta la paura di vivere quell’amore, per non disubbidire al padre, la voglia di scappare ed una passionale promessa, sussurrata al vento.
La chitarra come naturale estensione del corpo. Le parole come massima espressione di libertà. Dita intrecciate alle corde, voce e coraggio, politica e cultura. C’è chi ha regalato alla musica italiana un tormentone da un’estate e via e poi c’è lui, Faber, l’indimenticato protagonista. Il poeta solitario, fragile, scomodo, appassionato, eterno.