Parole semplici, senza orpelli inutili. Parole dalla forza evocativa così intensa da lasciare attoniti milioni di lettori nel mondo, intere generazioni di studenti. Tra gli illustri personaggi italiani spicca la figura di un poeta, che delle parole ha fatto la sua vita, regalando al suo tempo e all’umanità futura delle perle preziose, dei versi rari. Le poesie di Salvatore Quasimodo raccontano la Sicilia del cuore, dei sentimenti, e il dolore di una guerra subita sulla propria pelle.
Salvatore Quasimodo: biografia
La vita di Salvatore Quasimodo comincia a Modica, in provincia di Ragusa, il 20 agosto del 1901. Un’infanzia trascorsa a seguire il padre Gaetano, capostazione delle Ferrovie dello Stato, nei piccoli paesi della Sicilia. Il terremoto del 1908 di Messina cambierà tutto: il padre viene chiamato a riorganizzare la stazione locale e i vagoni ferroviari diventano la sua casa. Un’esperienza di dolore condivisa insieme ai superstiti di quella grande tragedia che lo segnerà per sempre.
A Messina Salvatore studia e arriva a diplomarsi nel 1919 presso l’Istituto Tecnico “A. M. Jaci”, specializzandosi nella sezione fisico-matematica. Nello stesso periodo entra in contatto con Salvatore Pugliatti e Giorgio La Pira, incontro fondamentale per la sua formazione letteraria ed artistica. Negli anni messinesi Quasimodo comincia a scrivere versi che pubblica sulle riviste simboliste locali.
A 18 anni lascia la Sicilia e si trasferisce a Roma, continua a scrivere versi e studia il latino e il greco, prendendo lezioni da monsignor Rampolla del Tindaro, nello stato del Vaticano. Il suo primo impiego, nel 1926, è di tutto rispetto: Quasimodo viene assunto dal Ministero dei Lavori Pubblici e assegnato al Genio Civile di Reggio Calabria come geometra. Il lavoro lo allontana dalla poesia, che sembra una passione ormai accantonata.
Il richiamo della Sicilia lo porta a riavvicinarsi agli amici messinesi e si stringe il legame con Salvatore Pugliatti, insigne giurista e appassionato di poesia. La fiamma della poesia si riaccende più forte di prima e la penna ritorna sul foglio a comporre nuovi versi. Nasce così il primo nucleo di poesie: “Acque e terre”. Nel 1929 si reca a Firenze e il cognato Elio Vittorini lo introduce nell’ambiente di “Solaria”, attraverso i suoi amici letterati: Alessandro Bonsanti, Arturo Loira, Gianna Manzini ed Eugenio Montale. Le doti del giovane siciliano non passano inosservate e quella prima raccolta della storia poetica di Quasimodo vede la luce nel 1930.
Due anni dopo, nel 1932, Quasimodo vince il premio dell’Antico Fattore e nello stesso anno pubblica “Oboe sommerso”. Nel 1934 passa da Firenze a Milano, la città della svolta. Salvatore Quasimodo entra a far parte di una sorta di società letteraria, insieme a poeti, musicisti, pittori, scultori. Nel 1936 pubblica “Erato e Apòllion”, raccolta delle sue poesie ermetiche. Nel 1938 decide di abbandonare il suo lavoro presso il Genio Civile e inizia l’attività editoriale come segretario di Cesare Zavattini. Grazie a questa collaborazione entra nella redazione del settimanale “Il Tempo”.
Nel 1938 esce la prima importante raccolta antologica “Poesie”. Ad introdurla un saggio di Oreste Macrì. Quasimodo continua a collaborare con la principale rivista dell’ermetismo fiorentino, “Letteratura”. Scrive nuovi versi, ma nel frattempo mette a punto la traduzione dei lirici greci, pubblicata nel 1942: un’opera creativa, ripubblicata in diverse versioni. Nello stesso anno vede la luce la poesia-simbolo di Salvatore Quasimodo, “Ed è subito sera”.
La sua fama, che cresceva di anno in anno, le valse la cattedra di Letteratura Italiana presso il Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi” di Milano. Il lavoro di insegnante gli permetterà di fare quello che aveva sempre amato, trasmettere la passione per la letteratura. L’incombere della guerra non ferma il talento di Salvatore, che continua a scrivere e tradurre: tocca ai Carmina di Catullo, alle parti dell’Odissea, a Il fiore delle Georgiche, il Vangelo secondo Giovanni, Epido re di Sofocle.
Tra i poeti della seconda guerra mondiale più rappresentativi, esprimerà tutto il dolore accumulato negli anni nella prima raccolta del dopoguerra, “Giorno dopo giorno”. In queste pagine il poeta cambia stile, interessandosi ai temi sociali che circondano il suo vivere. Ad aprire la raccolta è un’altra delle indimenticabili poesie di Salvatore Quasimodo, “Alle fronde dei salici”. All’interno della stessa raccolta è presente anche un altro importante brano di Salvatore Quasimodo, “Uomo del mio tempo”.
E nel 1949 esce “La vita non è un sogno”, che riprende gli stessi temi. Arrivano anche i primi riconoscimenti: nel 1950 Quasimodo riceve il premio San Babila e nel 1953 l’Etna-Taormina insieme a Dylan Thomas. Nel 1954 esce “Il falso e vero verde”, e qui comincia la terza fase della poesia di Quasimodo: il poeta parla di consumismo, dell’avvento della tecnologia, del neocapitalismo. Caratteristico di questo periodo è il linguaggio complesso, più crudo.
Nel 1958, Quasimodo pubblica un’antologia della Poesia italiana del dopoguerra e durante un viaggio in URSS viene colpito da infarto, restando per diverso tempo all’ospedale Botkin di Mosca. Il 10 dicembre 1959, a Stoccolma, Salvatore Quasimodo riceve il massimo riconoscimento alla sua carriera di poeta: il premio Nobel per la Letteratura. Nel 1960 l’Università di Messina gli conferisce la laurea honoris causa e la cittadinanza onoraria.
Del 1966 è la sua ultima opera, “Dare e avere”, un bilancio della propria vita, quello che possiamo considerare come un testamento. Nel 1967 anche l’Università di Oxford gli conferisce la laurea honoris causa. L’Italia perde uno dei suoi eccellenti rappresentanti il 14 giugno 1968: Salvatore Quasimodo viene colpito da un ictus ad Amalfi, sulla strada per Napoli.
Salvatore Quasimodo: poesie più celebri
Tra le tante opere di Salvatore Quasimodo, proponiamo di seguito le sue poesie più famose, le più rappresentative della sua poetica.
“Ed è subito sera”
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera
“Alle fronde dei salici”
E come potevano noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
“Uomo del mio tempo”
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Attraverso le sue opere, tradotte in quaranta lingue e studiate in tutti i Paesi del mondo, Salvatore Quasimodo seppe raccontare la bellezza della sua terra e l’inadeguatezza, tipica dell’uomo del suo tempo. Nelle sue parole la Sicilia era l’angolo di paradiso in cui rifugiarsi, la pace a cui aspirava l’umanità intera, fatta di angeli caduti e solitudini collettive.